L’ex ministra e presidente di Human Foundation ad HuffPost: “Le aziende possono fare profitti perseguendo obiettivi sociali e ambientali. Ecco perché l’impact economy è l’unica strada per rendere sostenibile il capitalismo”. Se ne parlerà alla Luiss il 4 marzo

 

Giovanna Melandri, presidente di Human Foundation. In che senso “un altro capitalismo è possibile”? Cos’è che non va nel capitalismo?

Il capitalismo ha vinto. E questa, tutto sommato, non è una cattiva notizia. Il problema è che è ancora regolato da meccanismi di misurazione del valore vecchi e superati decisi nel secondo dopoguerra, quando furono definite le regole per la rendicontazione finanziaria dei mercati di capitali. Questi meccanismi non rilevano gli impatti distruttivi degli investimenti nel momento in cui vengono decisi. Oggi noi abbiamo bisogno di un capitalismo ad elica, che sia in grado di guardare a tre fattori invece che a due. Il rischio e il rendimento devono continuare a guidare le scelte degli investitori, ma a questi il movimento dell’impact economy – che quest’anno celebra i dieci anni dalla nascita e oggi è presente in oltre settanta paesi – ne aggiunge un altro: la valutazione dell’impatto sia ambientale che sociale. Un impatto che va reso misurabile. In che modo? Monetizzandolo. Se possiamo misurare la valutazione dell’impatto di un investimento lo possiamo orientare nella giusta direzione.

 

Nello specifico di che tipo di investimenti parliamo?

Si tratta di investimenti che collegano il rendimento all’effettiva realizzazione degli obiettivi ambientali e sociali indicati in maniera intenzionale con il lancio di quell’investimento sul mercato. L’obiettivo è misurare l’impatto con parametri certi. Se l’impatto lo misuri, allora puoi gestirlo. Se lo gestisci, lo puoi cambiare. E’ finita l’era della rendicontazione finanziaria distinta dai bilanci di sostenibilità.

 

Quanto conta l’impact economy nel capitalismo odierno?

È molto cresciuta negli ultimi dieci anni. Alla partenza nel 2014 – con la presentazione del rapporto frutto della task force del G8 nella quale io ho rappresentato il governo italiano su indicazione dell’allora premier Mario Monti – gli investimenti ad impatto nel mercato finanziario erano all’incirca 150 miliardi di dollari che, rispetto ai mercati finanziari mondiali, sono una goccia nell’oceano. Sulla spinta degli obiettivi posti da quel rapporto, oggi gli investimenti ad impatto sono quasi 3.000 miliardi. Attenzione: l’impact non va confuso con la finanza Esg. Certo, da un punto di vista ambientale o sociale la finanza Esg è meglio di quella mainstream o speculativa. Ma non è abbastanza. Perché quest’ultima non lega il rendimento all’impatto ambientale e sociale prodotto. La logica seguita dall’investimento Esg è ancora quella del do not harm: non arrecare danni ulteriori al pianeta e alle persone. Ma la casa sta bruciando, i sistemi di welfare sembrano non rispondere più ai bisogni, le democrazie sono in crisi. Abbiamo bisogno di allocare capitali per guarire il pianeta ed eliminare lo sfruttamento delle persone.

 

Mi fa un esempio pratico di un investimento impact?

Un fondo impact può stabilire l’obiettivo di ridurre tot quintali di anidride carbonica, integrare tot migranti in un anno oppure offrire sul mercato tot servizi sanitari a prezzi accessibili, nonché investire sulla formazione e l’integrazione socio-lavorativa di minoranze svantaggiate. Sono fondi il cui rendimento dipende dal raggiungimento degli obiettivi per i quali hanno raccolto risorse e risparmi. Pensi che esiste tutto un mondo di investimenti a impatto in Europa come Impact France, Bridges in Gran Bretagna, Ananda nei Paesi Bassi. Realtà che sono già al terzo o al quarto round di finanziamento. Ciò che deve essere chiaro è che l’obiettivo ambientale e/o sociale è consustanziale al successo del fondo. Quando non c’è questo collegamento si tratta di finanza Esg, peraltro regolata solo in Europa.


La finanza ad impatto è la strada giusta per riformare il capitalismo in una direzione davvero sostenibile?

Io sono convinta che senza l’impact economy non raggiungeremo mai gli obiettivi ambientali e sociali delle Nazioni Unite e delle Cop sul clima. Non possiamo lasciare solo sulle spalle delle finanze degli Stati la realizzazione di questi obiettivi, a partire dalla sfida della decarbonizzazione. Ciò che dice l’impact economy è che per le aziende esiste la possibilità di fare profitti perseguendo obiettivi sociali e ambientali.

 

Un altro obiettivo dichiarato delmovimento impact è quello di porre fine alla separazione tra la rendicontazione finanziaria e la sostenibilità di un investimento. Che significa?

Si ne accennavo prima. Se il capitalismo lo vogliamo riformare in positivo, nell’interesse della specie umana e del suo stesso funzionamento, dobbiamo arrivare a meccanismi integrati di rendicontazione. I bilanci finanziari delle aziende sono ancora separati dalle rendicontazioni di sostenibilità. Ora c’è bisogno di bilanci che integrino la valutazione dell’impatto. Il nostro obiettivo è arrivare a uno standard integrato e condiviso per farlo. Serve una grammatica comune: bisogna monetizzare le valutazioni d’impatto.


In tutto questo qual è il ruolo dello Stato?

Qui la chiave sono i social impact bond, dove c’è un soggetto pubblico che individua gli obiettivi finanziandoli col privato. In Finlandia ad esempio hanno lanciato un refugee bond. Il governo ha stabilito un tot di rifugiati da integrare ogni anno nel sistema socio-lavorativo. Poi c’è un privato che, assumendosi il rischio, investe capitali in questo obiettivo. Passano cinque anni, il bond finanzia l’impresa sociale che cerca di realizzare l’obiettivo. Se viene raggiunto, lo Stato restituisce il capitale all’investitore con tanto di rendimento. Qui, purtroppo per l’Italia, devo far notare che altri paesi stanno replicando il modello finlandese, a partire da Regno Unito, Francia, Spagna e Germania. Noi non ci riusciamo. Sarà una delle richieste al Governo Meloni che avanzeremo il 4 marzo. I modelli pay-by-result farebbero molto bene al nostro sistema e ai nostri conti pubblici: gli investimenti impact danno più certezze in termini di risultati, perché senza quelli molto semplicemente non c’è rendimento. Lo Stato eroga solo a risultato raggiunto.


Perché non riusciamo a replicare i casi virtuosi dei nostri vicini?

Perché serve un’amministrazione in grado di ingegnerizzare questi modelli, nonché l’audacia della politica a delegare le scelte imprenditoriali, dato che trasferisci al privato il rischio dell’operazione. Poi c’è un tema culturale, ovviamente. La mancanza di una cultura dell’efficienza della spesa nella nostra Pubblica amministrazione. C’è infine un problema tecnico: in un paese con vasto debito pubblico come il nostro, quando un’amministrazione pubblica deve accantonare risorse per un contratto ad impatto sul modello finlandese, quelle risorse vanno a formare ulteriore debito. Queste problematiche le affronteremo lunedì 4 marzoal The Dome dell’Università Luiss di via Panama 25, alla conferenza “Impact Now, un altro capitalismo è impossibile”, dove porteremo anche le richieste del movimento impact al governo italiano, a partire dalla creazione di un apposito fondo per far sì che le pubbliche amministrazioni possano sperimentare la finanza d’impatto senza che ciò pesi sul debito pubblico.


Chi ci sarà il 4 marzo?

Esponenti di spicco della politica e dell’economia italiani e internazionali. L’ex premier Mario Monti, il presidente del Global Steering Group for Impact Investment Ronald Cohen, il commissario europeo agli Affari economici Paolo Gentiloni, l’economista della London Business School Lucrezia Reichlin, il presidente di Unicredit Pier Carlo Padoan, il direttore scientifico di Asvis Enrico Giovannini, i sindaci di Roma e Napoli Roberto Gualtieri e Gaetano Manfredi, il Ceo di Kairos Guido Maria Brera, l’esperto di AI Paolo Benanti e tanti altri.

https://www.huffingtonpost.it/economia/2024/02/26/news/giovanna_melandri_ecco_perche_limpact_economy_e_lunica_strada_per_rendere_davvero_sostenibile_il_capitalismo-15188694/