Senza un’alleanza profonda tra Stati e mercato dei capitali produrremo solo altre carte e ulteriori emissioni senza renderci contro che il tempo sta davvero scadendo”: la nostra presidente GIOVANNA MELANDRI per HUFFINGTON POST.

Si è aperta a Dubai la Cop28, la conferenza annuale sul clima organizzata dall’Onu. Lo dico senza esitazione e con chiarezza: siamo pronti per un’ennesima delusione. Le premesse lo raccontano. Il gap tra paesi emergenti e paesi sviluppati sulla riduzione dei combustibili fossili resta un nodo irrisolto. Il nodo. Qualche tempo fa The Economist titolava: Un africano medio consuma tanta energia elettrica quanto un frigorifero occidentale. La Cop 28 potrebbe essere l’ennesimo fallimento se non si affronta questo nodo. Basti pensare che nel corso delle precedenti 27 Cop la quantità di emissioni in atmosfera è continuata a crescere senza interruzioni uguagliando il totale delle emissioni emesse dalla rivoluzione industriale all’inizio del grande e finora inutile negoziato multilaterale per ridurle; per non parlare del fatto che la temperatura media della superficie della Terra ha appena toccato il picco oltre la soglia, più che simbolica, dei +2° rispetto al periodo 1850-1900.

Insomma mentre i rapporti dell’IPCC (integovernmental panel for climate change) confermano anno dopo anno la gravità della situazione, anno dopo anno l’esercizio diplomatico fallisce. E così, senza che la carbon neutrality diventi davvero un obiettivo condiviso, l’emergenza climatica in corso rischia di diventare permanente. Occorre dunque definitivamente prendere atto che il mantra “non fate nei vostri paesi -emergenti e poveri- ciò che abbiamo fatto noi per secoli prima” non funzionerà mai in assenza di un massiccio investimento di risorse per sostituire tecnologie e fonti fossili vecchie e inquinanti. Un massiccio investimento di risorse di finanza climatica e “a impatto” per fornire energia a basso costo e con basse emissioni ai cittadini energeticamente più fragili e poveri del pianeta. Di questo c’è innanzitutto bisogno; che sarebbe, peraltro, un grande esercizio di redistribuzione dei pesi e delle risorse dal Global North verso il Global South.

La grande sfida per il clima si gioca infatti in Asia, in Africa e in Sudamerica. In paesi emergenti che peraltro, dal Covid in poi, hanno visto una riduzione drastica di trasferimento di capitali e investimenti dal Global North. Proprio quando avrebbero avuto invece più bisogno di flussi di finanza climatica per le rinnovabili e per l’adeguamento delle grandi e costosissime opere infrastrutturali – come le reti di distribuzione elettrica inadeguate e soggette a continui black out che non corrispondono oggi certo alle necessità richieste dalla transizione energetica. E tutto ciò ha costi altissimi e richiede miliardi di investimenti. Un fabbisogno noto: il gruppo di esperti guidati da Stern, Songwe e Bhattacharya ha calcolato in 2,4 mld di dollari entro il 2030 il fabbisogno di investimenti legati alla mitigazione climatica nei paesi emergenti in via di sviluppo senza calcolare la Cina. Questa è la vera questione a cui nessuno oggi (con l’eccezione della rete globale degli impact investors) sta dando risposte adeguate: mobilitare il mercato dei capitali per rendere vivibile il pianeta.

Certo da Dubai ieri un primo segnale positivo è arrivato con la messa a terra del Fondo Loss and Damage per le compensazioni ai paesi più poveri che stanno già subendo gli effetti estremi e pesanti (alluvioni, inondazioni, siccità) dei cambiamenti climatici. il Fondo è partito con un totale di 403 milioni con un gesto di good will della presidenza emiratina che ha assicurato la sua capitalizzazione iniziale; tuttavia comunque saranno necessari miliardi e non milioni (sono 100 quelli annunciati dall’Italia). Ma per la mitigazione e i massivi investimenti necessari ancora nulla. Lo stallo negoziale sembra essere totale. Siamo fermi. Immobili. E solo ora ragioniamo sulla misurazione degli obiettivi degli Accordi di Parigi, raggiunti nel dicembre 2015. 

Cambiate marcia e smentiteci, chiediamo ai leader mondiali al lavoro negli Emirati Arabi Uniti, paese che peraltro siede tranquillamente – come tutti i paesi OPEC– su prospettive crescenti di produzione e consumo di petrolio. Non possiamo permetterci ancora mezze risposte e mezze misure. Nè ulteriori proclami: se non freniamo la produzione di “energia sporca” – decarbonizzando i modelli di produzione, distribuzione e consumo di energia in Asia, in Africa e in Sud America – non basterà triplicare quella pulita. Il ruolo degli attori istituzionali è cruciale. La posizione europea al tavolo continua a essere avanzata e bisognerà difenderla con forza da compromessi al ribasso spesso travestiti da insofferenti accuse di “neocolonialismo ambientale”. E tuttavia l’Europa che ha scelto di “fare la sua parte” a casa sua puntando ad accelerare propria transizione energetica deve oggi spendere la sua credibilità e leadership sul tema vero che è quello della finanza climatica e sul flusso massiccio di capitali e investimenti pubblici e soprattutto privati che esige la transizione tecnologica ed energetica verso paesi e aree geografiche che utilizzano ancora prioritariamente carbone (il 2022 ha segnato il picco storico nel consumo di carbone: 8 mld di tonnellate) e petrolio.

La verità è che il tempo stringe davvero e che la casa davvero sta bruciando. E dunque lo ripeto da anni: le risorse pubbliche da sole non potranno risolvere la sfida dei cambiamenti climatici senza la mobilitazione di capitali privati per la transizione. E se oggi solo il 2% dei capitali europei e il 4% dei capitali USA si dirigono verso i mercati emergenti vuol dire che proprio non ci siamo. Serve una nuova stagione di finanza esg, a impatto climatico. E serve che da Cop 28 esca un quadro di favore e di incentivi per questo tipo di investimenti su larga scala per la decarbonizzazione. Le grandi industrie devono investire in ricerca, ammodernamento e riconversione ecologica della produzione. E la finanza deve accompagnare questa transizione verso un’economia decarbonizzata. Con il Global Steering Group for impact investment (Gsg) lavoriamo da un decennio per promuovere l’impact investing anche con questa finalità. Generare cambiamento reale, anche sul piano climatico, significa costruire strumenti concreti, economici e finanziari, per il “face out” e la liberazione dal fossile, senza che questo disegni nuove disuguaglianze tra Global South e Global North. Le Cop dell’Onu sono occasioni imperdibili per mettere con concretezza il tema del climate change al centro dell’agenda politica mondiale. Ma senza un’alleanza profonda tra Stati e mercato dei capitali (con rendicontazioni che sappiano integrare finalmente rendimenti finanziari e impatto) produrremo solo altre carte e ulteriori emissioni senza renderci contro che il tempo sta davvero scadendo e che in gioco non c’è solo l’equilibrio geopolitico e la crescita economica, ma – per la prima volta nella storia dell’umanità – la sopravvivenza stessa della nostra specie.

 da L’ennesima inutile Cop. Decarbonizzazione e finanza green, cambiate marcia e smentiteci – HuffPost Italia (huffingtonpost.it)